Se lo sport fa rima con movimento, Andrea Lehotska potrebbe candidarsi alla presidenza di un Coni amatoriale e convincere ogni poltronaro a uscire fuori, nel mondo. Magari anche quei sedentari irreversibili che qualche anno fa ne osservavano in televisione le gesta di conduttrice/showgirl atipica, o di naufraga de L’isola dei famosi (2012) dove in mezzo a nani e ballerine dello spettacolo riuscì a classificarsi terza. Il podio, l’ambita pedana che ogni sportivo sogna. E dopo avere idealmente cantato l’inno slovacco ha salutato la compagnia patinata, custodendo intimamente i ricordi al fianco di Piero Chiambretti, così come i momenti che l’hanno vista inframmezzare gli spettacoli del Festival internazionale del Circo di Montecarlo trasmesso dalla Rai.
Era giunto il tempo di dedicarsi allo sport che tutti sognano di praticare, forse l’unico capace di spodestare il calcio: viaggiare. Spesso sola, in modo spartano e selvaggio, metodo zaino in spalla. Non è forse lo sport una sfida con se stessi? Lo è anche il viaggio itinerante, una dimensione orfana di avversari in carne e ossa ma stracolma di ostacoli: clima, fatica, disagio, sacrificio, il tempo che passa facendoti perdere una coincidenza o l’ultimo letto di un rifugio per la notte. Come se tra lo sportivo-viaggiatore e il traguardo finale (che diventa subito ripartenza) ci fossero dei gironi eliminatori da superare attingendo a tutte le qualità a disposizione.
Da poliedrica travel blogger qual è diventata – sa fotografare e documentare – la non atleta professionista Lehotska ha sposato la filosofia del moto perpetuo, superando la forma mentis che condanna il comun mortale a sporadiche corsette al parco o nelle palestre. Ai suoi “tifosi” regala scatti esotici da seducenti mete, luccicanti quanto una medaglia d’oro. L’abbiamo intercettata poco prima della sua partenza per il Portogallo, che attraverserà da nord a sud.
Imposto o liberamente scelto, tutti hanno uno sport d’infanzia che più o meno ha forgiato il carattere, presentando il bilancio di pregi, difetti, limiti. Qual era il tuo?
“Il mio era imposto, l’unico possibile all’epoca della Cecoslovacchia comunista: la ginnastica artistica. Ai maschi invece toccava l’hockey sul ghiaccio. Avevo 4 o 5 anni quando ho iniziato a essere vittima, e tuttora ho ricordi terribili, perché gli allenamenti precedevano sempre il suono della prima campanella che scandiva l’entrata a scuola. Alle 6 del mattino, quando fuori faceva -15, i coach russi ci facevano riscaldare correndo e con sedute di addominali. Dopo le lezioni tornavo a quell’imposizione per altre quattro ore. Divieto di zuccheri, niente cicca, il tè lo bevevo amaro: il peso era monitorato. Eppure speravo di diventare brava, molto brava, poiché solo sportivi e artisti potevano ottenere un visto per uscire dal Paese. Ma non è stato il mio caso, ho resistito forse tre anni, complice un infortunio al ginocchio dovuto a una benedetta caduta“.
Cosa ti ha lasciato?
“La disciplina, la perseveranza, l’autorità degli allenatori. Ripenso a una mia vecchia compagna, caduta durante un esercizio alle parallele. Si era rotta il braccio, ma fu costretta a continuare con le flessioni fino a quando stramazzò a terra. Non butto assolutamente a mare quello sport d’infanzia, consapevole che se fossi andata a giocare tutti i pomeriggi con le bambole ora non scalerei certe montagne. Ci sono cose ben più importanti dello zucchero, no?“
Spesso l’eroe di un bambino coincide con un atleta o un personaggio dei fumetti. Nella Slovacchia indipendente di metà anni Novanta c’era un sportivo capace di ispirarti?
“Non avevo la tv, e non c’erano così tanti investimenti nello sport. Così anche gli atleti più bravi non riuscivano mai a raggiungere livelli tali da giustificarne la popolarità. Non si affermavano fuori. Ricordo solo che l’unica di cui sapevo qualcosa era l’ex moglie di Trump, Ivana, una bravissima sciatrice. Oggi è diverso, siamo rappresentati da Peter Sagan, Marek Hamsik. Mi è andata male anche coi fumetti, avendo scoperto l’ape Maia prima di Superman“.
A un certo punto la bellezza ha preso il sopravvento, consentendoti di affermarti anche in Italia come modella e showgirl. Fama, reality, soldi: meglio di chi vince una maratona alle Olimpiadi. Perché sei uscita dalla comfort zone?
“Non ho mai voluto entrarci, mi spaventava essere riconosciuta per strada. O essere giudicata per come apparivo, per quello che dicevo. Prima di mettere piede in Italia ho vissuto altrove facendo altro, tipo l’interprete, non solo la modella. Vasco Rossi e Chiambretti hanno forse visto in me qualità poco comuni al mondo dello spettacolo. Me ne sono approfittata, ma la veste di showgirl non l’ho mai trovata comoda, su misura. Non faceva per me. Quando un lavoro non ti piace non puoi dare il massimo, concederti senza fingere. Avevo soldi, non avevo il tempo, c’erano i paparazzi. Ora è il contrario, ed è questa la vera comfort zone, la libertà di governarmi. L’ho capito grazie alla malattia“.
Hai avuto modo di rientrarne recentemente?
“Mi vedrete al cinema, dove non mi sento a disagio. Lì interpreto qualcun altro e non devo giocare sulla mia persona facendo la valletta forzatamente sorridente sui tacchi a spillo“.
Se oggi non ti si vede neanche al supermercato è perché sei eternamente in giro per il mondo da sola, con la macchina fotografica…
“Non ho mai amato la fotografia su me stessa, la consideravo cinicamente un mezzo per guadagnare. Poi, con quei soldi, assecondavo la mia indomabile voglia di scappare, di fuggire da quei contesti che mi rendevano insofferente. La fuga è diventata viaggio, e mi piaceva. Ho quindi scoperto il lato più nobile della fotografia ritrovandomi a catturare momenti, non necessariamente belli. I momenti, se colti nei particolari, possono raccontare più di un libro. E quando un mio scatto riesce a “mostrare” il dietro le quinte sono felice“.
Il momento affascinante che hai immortalato?
“Fa parte di tutti i miei salvaschermi. È la foto di un bambino di tre anni originario della Birmania. Sul viso ha della polvere di Thanankha, che l’ha protetto dal sole durante un viaggio di 18 ore a bordo di una nave. Mi colpì perché giocava con le armi, quelle vere, e mordicchiava ferocemente la sorella. Era pieno di odio, conosceva i segni militari, come tanti altri bambini soldato“.
Quanti mesi dell’anno trascorri in Italia?
“Almeno sei mesi. Quest’anno solo nove giorni, nonostante abbia finalmente ricevuto la cittadinanza“.
Non essendo i tuoi viaggi di comodo, quanto ti senti atleta durante una tappa? Può essere il viaggio stesso, che del dinamismo è emblema, uno sport multidisciplinare? Penso al Triathlon…
“Eccome. Durante le mie tappe può capitare che mi sposti su un kayak, a nuoto, facendo trekking o arrampicando su pareti di roccia. In Portogallo, per esempio, inizierò con almeno 15 km al giorno. Un leggero riscaldamento. In passato ho anche attraversato grotte dove l’acqua aveva raggiunto un livello proibitivo. Le vie impervie stimolano, ti mettono alla prova, però ricambiano con uno scorcio o una sensazione. Quando torno da un viaggio così bello e arduo devo andare in vacanza a riposare, proprio come un atleta dopo una gara. Mio papà, che spesso mi accompagna, non vede l’ora di ritornare indietro, al lavoro. Almeno si rilassa“.
L’incontro più assurdo?
“Mi ero persa in Thailandia con una guida abusiva, dopo che la barca con cui dovevamo solcare un vasto lago artificiale si era rotta. Raggiunta in qualche modo la terraferma, abbiamo camminato per un giorno e mezzo nella speranza di un’indicazione. Nulla. Poi, lungo uno sterrato, è passata una macchina guidata da un signore di mezza età, 56 anni, che ci ha caricato. Non parlava inglese, ma la guida traduceva tutto. Sosteneva che io fossi sua figlia, che mi vedeva intorno a me una luce, che finalmente mi aveva ritrovato. La luce si interrompeva in prossimità della mia mascella, avevo davvero il mal di denti. Pensavo fosse un santone. Mi ha condotto nel suo villaggio per il rito di adozione, durante il quale ha fatto portare molto cibo, compresa una testa d’orso bollita. Da quel momento ero sua figlia. Il santone era nato lo stesso giorno di mio padre, pazzesco. Oggi lo vado ancora a trovare“.
Il luogo che non ci si può perdere prima di morire?
“Direi il Bhutan, Asia meridionale. È l’unico Paese che basa le sue politiche di sviluppo sulla felicità delle persone. E poi i suoi monasteri collocati in posizioni dominanti devono essere unici, circondati da un’atmosfera mistica“.
A causa di un’infezione presa durante il tuo vagabondare hai rischiato grosso, addirittura la vita. È lunga la carriera di una travel blogger?
“Dovrebbe durare finché si esiste, a vita, essendo una vocazione e non proprio una carriera. E neanche una pericolosa infezione può metterle il punto finale. Avevo il divieto di viaggiare in quel frangente delicato, ma ero insofferente tanto quanto un calciatore che vuole forzare il suo rientro in campo. Così ho fatto i biglietti aerei e mi sono rimessa in cammino. Pochi metri, non ero guarita ma nemmeno depressa. Non essendo una viaggiatrice commerciale che recensisce alberghi di lusso, i guadagni sono limitati, tuttavia ho carta bianca circa la scelta delle mete. Mi mantengo con attività parallele, tra cui la vendita delle foto“.