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Star Trek: arrivare dove nessuno è mai giunto prima

Sembra incredibile che una serie televisiva di fantascienza possa essere molto più di un semplice intrattenimento, eppure il mondo dell’entertainment ha dimostrato come possano nascere delle sinergie tra finzione e realtà capaci di veicolare grandi messaggi sociali. È un ruolo che, nei decenni passati, ha visto come protagonista uno dei grandi universi fantascientifici televisivi, Star Trek, che sin dalla sua prima comparsa nel 1966 ha mostrato una science fiction permeata da un sentimento in precedenza poco sfruttato: l’ottimismo.

La fantascienza precedente, infatti, sia letteraria che cinematografica, era principalmente venata da una visione bellicosa e colma di un senso di ineluttabilità. Abomini nati dalla scienza impazzita, spettri del nucleare e un sentore di imminente battaglia permeavano la sci fi degli anni ’50, in cui anche i pochi racconti improntati all’avventura e all’esplorazione tendevano a fare emergere lati cupi.

Star Trek: Strange New Worlds

Comprensibile, se consideriamo che la società americana del periodo, ancora ferita dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale, era entrata in uno dei periodo più turbolenti della sua storia recente: maccartismo, Guerra Fredda e tensioni sociali. In questo contesto sociale, l’idea di Star Trek fu una vera rivoluzione, ma non poteva esser diversamente visto che il suo stesso creatore era figlio di quel periodo.

Le origini

Gene Roddenberry, classe 1921, potrebbe esser protagonista di una serie TV. Aviatore decorato nella Seconda Guerra Mondiale, tornato in patria fu pilota di aerei (salvando anche la vita di 120 persone durante un atterraggio di fortuna) e poliziotto a Los Angeles, professioni svolte mentre in lui si muoveva un’altra voglia: raccontare storie.

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Per tutto il periodo degli anni ’50, Roddenberry lavorò ad una serie televisiva che unisse le atmosfere di uno dei classici televisivi americani, il western, con la fantascienza. L’idea era quella di ricreare tra le stelle il mito della frontiera, l’avventura per eccellenza nell’immaginario americano. Questa sua idea si sposava con la convinzione che si dovesse presentare una diversa umanità futura, più consapevole dei propri errori e vogliosa di creare un domani scevro degli errori del passato. Soprattutto, era ora di andare oltre al concetto di alieno come essere inevitabilmente cattivo.

Roddenberry, infatti, era portato a raccontare un’umanità futura positiva, capace di superare i propri limiti attuali. Come da tradizione, la fantascienza racchiude un’anima di critica sociale, specie in ambito letterario, ed era questa caratteristica ad ispirare Roddenberry, che nei primi anni ’60 ideò Wagon Trains to the Stars. L’idea era promettente, ma venne scartata da CBS, a cui fu proposta, perché in apparente contrasto con un’altra serie di fantascienza appena realizzata dall’emittente, Lost in Space, che stava ottenendo grande successo.

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Convinto che quella fosse la strada giusta, Roddenberry realizzò un nuovo progetto, Star Trek, il cui pilot The Cage (per noi italiani Lo zoo di Talos) venne presentato alla NBC. Accolto tiepidamente, in quanto considerato troppo complesso per stile narrativo, The Cage non fu avvallato dall’emittente, che però chiese un secondo pilot, vedendo del potenziale nel progetto di RoddenberryOltre la galassia, secondo tentativo, colse nel segno e divenne il punto di partenza per la vita di Star Trek, che arrivò nelle case americane l’8 settembre 1966 con l’episodio Trappola Umana.

Quando si parla di Star Trekanche chi non ha familiarità con la serie può citare almeno due o tre caratteristiche della serie. Che si tratti del teletrasporto o di Spock, Star Trek ha lasciato un segno profondo nell’immaginario collettivo, ma quello che venne fatto da Roddenberry con la prima serie di Star Trek fu una vera rivoluzione sociale.

In un periodo in cui l’America era vittima della paura del pericolo rosso, in cui i giapponesi erano ancora visti come il nemico sconfitto e la popolazione afroamericana stava iniziando i primi passi per dare vita ai movimenti per i diritti civili, Roddenberry diede vita ad un equipaggio multirazziale, internazionale e che sembrava, per l’epoca, davvero fantascientifico.

Star Trek: raccontare il domani ispirando il presente

Star Trek fu una vera innovazione per la società americana, un messaggio forte rivolto al pubblico. Sullo stesso ponte di comando trovavano spazio un comandante americano, un alieno, un russo, un giapponese e, incredibile a dirsi, una donna di colore. Se la presenza di Hikaru Sulu e Pavel Checov non sconvolse più di tanto, fu il tenente Nyota Uhura, interpretata da Nichelle Nychols, a scuotere la società americana, soprattutto la popolazione di colore.

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Il ruolo di Uhura venne visto come un messaggio forte, un’apertura al riconoscimento di una parità tra bianchi e afroamericani che stava iniziando a farsi largo anche nel mondo dell’entertainment, grazie ad attori come Sidney Poitier. A dare valore a questa figura femminile forte, fu anche il reverendo Martin Luther King, che convinse la Nychols a non abbandonare il ruolo. La scelta della Nychols di non lasciare la plancia dell’Enterprise ebbe un forte impatto sulla sua comunità anche su una bambina che in quegli anni divorava gli episodi di Star Trek adorando il tenente Uhura, che le insegnava che le stelle non erano così lontano. Era Mae Jemison, la prima astronauta afroamericana a conquistare le stelle.

Spesso si sottovaluta l’impatto di Star Trek dal punto di vista sociale. Forse perché in Italia arrivò in seguito e perché il nostro tessuto sociale non era attraversato dalle stesse tensioni che serpeggiavano in territorio americano, ma è innegabile che il messaggio di base di Star Trek sia universale: possiamo essere migliori, dobbiamo solo volerlo.

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Per tutta la serie classica si susseguono episodi in cui questo assioma viene esaltato, senza ipocrisie ma mostrando anche i lati meno nobili dell’umanità. Basti pensare ad uno degli episodi più emozionanti, La navicella invisibile, in cui viene presentato con lucidità la facilità con cui ci si lascia prendere dalla paura e si cerca nel diverso la fonte dei propri problemi. Roddenberry, per quanto inguaribilmente ottimista, non era però uno sprovveduto, e sapeva interpretare, aiutato dagli sceneggiatori, quali fossero gli spunti narrativi da valorizzare e su cui costruire episodi coinvolgenti e che colpissero gli spettatori.

Star Trek in Paramount

Il successo di questa prima incarnazione di Star Trek terminò presto, dopo solo tre stagioni. Non mancavano però i primi appassionati, che facevano sentire il proprio apprezzamento per la serie, al punto che la Paramount acquistò i diritti dalla NBC e orchestrò una serie di repliche in sindication, ossia su reti locali. Fu un vero successo, l’origine del mito di Star Trek. Al punto che Paramount, dopo avere visto nascere le prime convention di appassionati, si convinse che era ora di dare vita ad una nuova serie, ma a cambiare i suoi piani arrivò un altro colosso della fantascienza: Star Wars.

Star Trek Phase II era l’idea da cui Paramount voleva partire per riportare Star Trek sul piccolo schermo. Le idee furono tante, tra tentativi di sostituire attori particolarmente cari e la necessità di trovare nuove idee, ma mentre Roddenberry e il suo team lavorava a questo progetto, i cinema americani vennero invasi dal fenomeno Star Wars.

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Il primo episodio della saga di George Lucas, in effetti, cambiò radicalmente il panorama della fantascienza televisiva e cinematografica del periodo. Pur avendo un approccio virato maggiormente alla space opera e con un maggior distacco dalla nostra attualità, Star Wars divenne immediatamente la pietra di paragone per la sci fi cinematografica. Grazie al suo successo, ad esempio, nacque la prima serie di Battlestar Galactica (1978) e anche Star Trek venne influenzata da questo fenomeno culturale.

Da serie televisiva, Star Trek Phase II venne modificata in un progetto cinematografico, frutto della volontà di Paramount di cavalcare il successo di Star Wars e di mostrare un proprio prodotto di punta cinematografico di stampo fantascientifico. Fu così che nel 1979 arrivò nei cinema Star Trek: The Motion Picture, in cui l’equipaggio della USS Enterprise viene ricomposto e da cui prende vita il seguito delle avventure di Kirk e compagni, che lasciano definitivamente il piccolo schermo per diventare star del cinema.

La nuova generazione

Se la vecchia guardia di Star Trek passa al grande schermo, Roddenberry e soci non vogliono certo dimenticare quanto era stato preventivato per Star Trek Phase II. Sono passati quasi vent’anni dall’uscita del primo episodio di Star Trek e i film al cinema hanno contribuito a modificare l’assetto sociale della saga, aprendo a nuove possibilità che Roddenberry voleva rendere il motore di uno Star Trek diverso, in linea con i tempi.

Un esempio su tutti era la fine delle ostilità tra Federazione Unita dei Pianeti e Impero Klingon, visto in Rotta verso l’ignoto, che sembrava ispirarsi al clima di disgelo che a breve avrebbe segnato la fine della Guerra Fredda. Come spiegò John Lucas, sceneggiatore della nuova serie, era necessario dare una maggiore caratterizzazione alle razze che avrebbero composto il futuro di Star Trek, partendo proprio dai Klingon:

“L’intenzione era di spingere la serie verso un qualcosa di mai vista in Star Trek, presentando anche una compenetrazione culturale in una cultura precedentemente vista come un nemico. L’ideale era lavorare quindi sui Klingon, dato che per i Romulani era già stata data una linea guida ispirata all’antica Roma. Come modello per i Klingon non riuscivo a trovare un modello ideale, sino a quando non mi venne in mente il Giappone feudale, e da quello sviluppai il Sacro Imperatore, i Signori della Guerra e via discorrendo”

Questa volontà è indice anche del diverso approccio tra la serie classica e questa ‘nuova generazione’. Se in Star Trek la Federazione era ancora in fase di espansione nello spazio, incappando spesso in piccole scaramucce con altri imperi stellari, con Star Trek: The Next Generation si voleva mostrare una Federazione oramai solida e dedita all’esplorazione e al dialogo con le altre specie. Non è un caso, infatti, che da una figura di comando molto fisica e avventurosa come James T. Kirk (William Shatner) si sia passati ad un diplomatico riflessivo e a tratti schivo come Jean Luc-Picard (Patrick Stewart).

Il cambio di tono narrativo era necessario proprio per mostrare questo avanzamento sociale della Federazione, meno irruenta e più riflessiva, capace anche di ragionare più in termini di necessità politiche che non di giusto o sbagliato. È solo uno dei nuovi temi introdotti all’interno di The Next Generation, che con sensibilità si avvicina ad argomenti delicati quali tortura, stress post traumatico e genitorialità, aspetti trattati grazie ad una diversa visione della vita di bordo.

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Sull’Enterprise di Kirk era quasi impossibile concepire la nave come un luogo sicuro in cui creare una famiglia, complice il ruolo di vascello esplorativo, spesso coinvolto in battaglie. Per Star Trek: The Next Generation si decise invece di presentare la Flotta Stellare come meno belligerante e maggiormente dedita all’esplorazione, mostrando, in apparenza, un futuro in cui la famiglia ha un ruolo essenziale. Chiave di lettura che si legge nel modo in cui vengono trattati i rapporti familiari dei protagonisti, come nel caso di Worf e Riker, o nella visione differente della donna, che assume un ruolo anche di comando senza dover rinunciare alla maternità o alla voglia di famiglia, ed in cui viene valorizzato il ruolo paritario della coppia. Focale, in questo, il nucleo famigliare del capo O’Brien, che assieme alla moglie Keiko rappresenta l’esempio di famiglia della Next Generationparitario, capace affrontare assieme le tensioni e di conciliare carriera e vita domestica.

Next Generation

In quest’ottica, il percorso cinematografico della Next Generation si configura come più attinente a quanto raccontato sul piccolo schermo, rispetto alla serie antecedente. Questo è, probabilmente, dovuto anche all’introduzione nel mondo dell’entertainment, e quindi anche in Star Trek, del concetto di continuity. L’universo immaginato da Roddenberry, infatti, era divenuto immensamente più grande, era in continua espansione ed era necessario imbastire un filo narrativo che fosse anche cronologicamente solido.

Non mancavano, infatti, piccole discrepanze tra quanto raccontato tra serie TV, film e altri media (romanzi, videogiochi, fumetti), che in Star Trek, contrariamente ad altri celebri universi narrativi, rischiava di essere una vera tragedia. Motivo per cui, poco prima della sua scomparsa, Gene Roddenberry sancì che quanto veniva raccontato in seguito aveva il potere di correggere ciò che era stato precedentemente detto, in una sorta di continuo retcon.

Deep Space Nine e Voyager

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Decisione importante che arrivò al momento giusto, considerato che il successo di The Next Generation fu il punto di partenza per la nascita di ben due serie spin-off: Deep Space Nine e Voyager.

Entrambe le nuove serie erano coeve di The Next Generation, ma erano unite da un’altra caratteristica: niente Enterprise. L’inconfondibile simbolo di Star Trek, infatti, venne abbandonato in favore di una stazione spaziale (Deep Space Nine, 1993) e di un vascello esplorativo disperso in un remoto quadrante della galassia (Voyager, 1995).

Questo epocale cambiamento si accompagnò anche all’introduzione di tematiche moderne e, in alcuni casi, precedentemente escluse dal canone trekkiano.

Deep Space Nine introdusse l’elemento religioso, da sempre sgradito a Roddenberry. Sulla figura di Benjamin Sisko (Avery Brooks) viene intessuto un racconto che unisce fede e fantascienza, grazie ad una impeccabile costruzione della fede Bajoriana. Un concept narrativo intrigante che porta ad uno dei grandi conflitti della storia della Federazione, la Guerra del Dominio, guerra che consente di affrontare con particolare sensibilità il tema dei reduci e dello shock post-traumatico, particolarmente sentito dalla società americana reduce dalla Guerra del Golfo.

Dal punto di vista emotivo, Deep Space Nine era una serie particolarmente intesa, complice l’ambientazione statica. In una stazione spaziale immobile i personaggi erano portati a vivere un’esistenza atipica per Star Trek, venivano costretti ad affrontare in prima persona le conseguenze delle proprie azioni, introducendo un elemento etico e morale maggiormente sentito rispetto alle precedenti serie.

Elemento che, ad esempio, non era così evidente in Voyager, il cui fulcro emotivo era l’esplorazione, un ritorno alle origini del concept autentico di Star Trek. Ad appassionare i fan, fu la prima donna a sedere sulla poltrona del capitano, Kathryn Janeway (Kate Mulgrew), costretta a far collaborare un equipaggio composto da ufficiali della Federazione, terroristi ribelli e alieni incontrati strada facendo, tra cui Sette di Nove (Jery Ryan), un ex-drone Borg salvato dall’equipaggio della Voyager.+

In Voyager si ha la sensazione di esser tornati alla vena esploratrice della Federazione, ma questo isolament0 forzato lontano da casa è uno spunto narrativo per mostrare un’evoluzione dei personaggi ben definita, rinforzata dalla trattazione di temi precedentemente sfiorati dalla saga e ora divenuti anche di interesse comune. La figura del dottore olografico d’emergenza (Robert Picardo) diventa il tramite emotivo per analizzare il concetto di IA e il rapporto organico sintetico, mentre la presenza di figure femminili forti consente di aprire ad una visione differente della femminilità all’interno della società. Non a caso, Sette di Nove viene vista come un personaggio di rottura, tra chi la ha negativamente idealizzata come una sexy alien per i suoi costumi aderenti e chi ne ha colto il giusto valore narrativo, che consente di parlare di ricerca del sé.

in copertinaq

Richard Branson in posa con la SpaceShip Two

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