Ricerca Anteprima MOSTRE VANZINA a TORINO FOTOGRAFA I SENTIMENTI dall’11 Settembre Galleria d’arte Biasutti&Biasutti in via Bonafous

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Il regista a Torino con la rassegna “Variazioni Pop”: trentadue scatti particolari, rielaborati e in chiave bianco e nero “dove trovo dei significati per digerire il Pop”. La mostra sarà inaugurata l’11 settembre alla Galleria d’arte Biasutti&Biasutti in via Bonafous
 

Enrico Vanzina torna a Torino. O meglio, a tornare sono gli sguardi del noto sceneggiatore, commediografo, produttore, regista, scrittore e giornalista, cristallizzati in trentadue raffinate opere fotografiche realizzate per la mostra “Enrico Vanzina. Variazioni Pop”. La rassegna sarà inaugurata sabato 11 settembre presso la Galleria d’arte Biasutti&Biasutti, in via Bonafous, a pochi passi da quel Po in cui l’autore ha gareggiato come canottiere e dove, insieme al fratello Carlo, ha girato tanti film, da “2061” con Diego Abatantuono, a “Il Pranzo della Domenica” con Massimo Ghini e “Caccia al Tesoro”, nel 2017. La mostra, curata da Francesco Poli, presenta l’Enrico Vanzina fotografo, non lo sceneggiatore cinematografico re dei botteghini che cuce immagini mobili, ma l’intellettuale gentiluomo, l’artista sensibile che, come un pittore, osserva e compone racconti personalissimi.

Uno scrittore d’immagini rubato al cinema, elegante portavoce della cultura Pop italiana che ha cercato, con talento e fantasia di “mettere quest’anima di osservazione degli stereotipi popolari in fotografie che mi piacciono – racconta Vanzina – legandole alle rimembranze culturali fondamentali della mia vita. Variazioni di me che non raccontano solo me, ma fanno parte della vita e dei ricordi di tante persone”.
Vanzina maestro del racconto d’immagine?
“Maestro di nulla, ho qualche pregio e molti difetti, e tra questi son un po’ superficiale. Quando ho capito una cosa mi annoio e passo oltre, senza approfondire, per cui sono come un’ape che svolazza su tanti fiori e si diverte a pizzicare un po’ dappertutto, senza la presunzione di poter insegnare. Son sempre stato mosso dal divertimento che talvolta è stato per me il lavoro, anche se in realtà è una cosa serissima. Dentro di me non ho una missione specifica che mi spinge a esibire un modello di vita o di verità, anzi mi nutro di quelle dei veri maestri”. 

Nel testo che correda il catalogo della mostra scrivi che oggi, pensare alla fotografia, è un esercizio rischioso. E fare la fotografia?
“Ora la tendenza globale è di storicizzare tutto con le immagini: tutti fotografano con i telefonini e così si racconta ciò che prima finiva nelle lettere, nei film. È divertente immaginare di utilizzare la macchina fotografica per raccontare qualcosa, ma diventa rischiosissimo farlo, perché in quel momento non devi solo storicizzare, ma scegliere un punto di vista. Questo l’ho trovato, col tempo, e da allora fare la fotografia è diventato divertentissimo”.

Il Pop come scelta stilistica, dove non c’è una vera distinzione tra le diverse arti, non è mai morto. Cos’è oggi Pop?
“È tutto ciò che è lontano dal dogmatismo del politicamente corretto, la sua vera antitesi. Svela, attraverso dei simboli popolari, l’animo vero di un Paese, di una cultura, di una tendenza ideale in un preciso momento di una società e nasce dalla pubblicità o da un’icona di bellezza, per raccontare qualcosa. Nel politicamente corretto è un dogma, scende dall’alto e viene imposto”. 

È Pop la sua personalità?
“Si, nel senso reale della parola, ma senza averlo programmato né voluto. A diciotto anni suonavo al pianobar, poi sono stato cooptato al cinema e ho iniziato a scrivere tanti film, libri, ma anche pièces per il teatro e poi per i giornali. Mi manca la pittura, nonostante mio padre Steno, abbia cercato d’insegnarmela, non sono mai riuscito a dipingere”.

Quando si è avvicinato per la prima volta alla fotografia?
“Da sempre, facendo il cinema, e poi a Parigi, frequentando Yan Nascimbene, un amico dai tempi della scuola, fotografo, illustratore e assistente di Guy Bourdin. Ho sempre fotografato tantissimo sul set finché, due anni fa, ho ritrovato le mie vecchie foto realizzate in giro per il mondo . Così, insieme all’amico gallerista Fabrizio Russo, le abbiamo esposte in una mostra a Roma per fini benefici ed è stato un successo. Allora ho pensato che anche se non sono un fenomeno, sono abbastanza capace. Ho cercato di realizzare delle foto particolari, rielaborate e in chiave bianco e nero, dove trovo dei significati per digerire il Pop”. 

Nel cinema l’immagine si fa magia in movimento. Anche nei suoi scatti, nonostante l’apparente immobilità, tutto sembra pervaso dalla vita.
“Mentre le fotografie importanti spesso frizzano un momento preciso e te lo raccontano, come fu per Robert Capa, nelle mie fotografie il movimento è rappresentato da un piccolo viaggio nel tempo, son scatti che partono dagli anni Venti, Quaranta, e riportano qualcosa di preesistente, perché alla fine, tutto si tiene e si fa ricordo”. 

Che valore ha l’immagine per lei? E gli oggetti?
“Detesto l’autobiografia, ma nei miei scatti appaiono oggetti fondamentali che fanno parte della mia vita, come quelli del mio studio, che vedo più di mia moglie e di mio figlio. È una piccola rivincita che mi prendo rispetto al cinema, dove invece solo i grandissimi registi come Hitchcock riescono a concentrarsi sugli oggetti, perché si sta più sulla storia, sul dialogo”.

Le sue fotografie racchiudono spesso materiali iconici che richiamano i foto-collage d’avanguardia. Quanto conta per lei la post-produzione?
“Non mi interessa scattare delle immagini di livello tecnico perfetto, uso macchine fotografiche di medio livello accessibili a tutti, perché questo è Pop e perché alla mia età non potrei mai entrare in un tecnicismo fotografico esasperato. Preferisco mettermi nei panni di uno che guarda. Oggi si può fare tutto a livello di effetti, come al cinema, ma, come fu per Cartier-Bresson, è lo sguardo che conta”.

Teme l’omologazione?
“Faccio un’altra cosa, non corro in Ferrari, ma con un’Abarth che fa le curve in salita. Amo lo sport, ne ho fatto tanto e per me è quella cosa in cui si cerca di vincere per imparare a perdere. C’è sempre quello più bravo, io corro sapendo di perdere, ma chi se ne frega, provo a vincere qualcosa”.

Da cosa “variano” le sue “variazioni”?
“Io non so fare le variazioni, ma in trenta fotografie scopro che ad essere cambiato sono io, io che amavo il Pop, l’ho digerito, l’ho fatto diventare a modo mio bianco e nero e l’ho usato per qualcosa che non è la mia specificità, cioè la fotografia”. 

Cos’altro è Enrico Vanzina?
“Tanto, ad esempio in queste foto non racconto la dimensione più riservata della mia vita fatta di grandi sentimenti, di amore, passione e delusione. C’è solo l’immagine della donna che ho amato di più, Brigitte Bardot”.

Perché questo pudore?
“Non sapevo come fotografarli i sentimenti, non ho mai capito come si fa, è un mio limite. Forse lo faccio meglio scrivendo”.

Nella fotografia che la ritrae si percepisce solitudine.
“È vero, anche se non sono mai stato solo, perché non ci saprei stare, ma rispetto la solitudine degli altri che stanno vivendo una vita diversa dalla mia: è la parte più fragile della società che mi incanta. Raramente fotografo gente che ride, perché mi annoia”.

Non è antitetico per il re della commedia all’italiana?
“Si, ma sono profondamente malinconico e probabilmente ho fatto queste fotografie per lasciare un’immagine di un altro Enrico Vanzina, meno conosciuto, a chi mi vuol bene, come i miei nipotini. Come chi suona per tutta la vita canzoni divertenti, ma tiene nel cassetto quel brano più romantico che nessuno ha mai ascoltato”.

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