Ma questo è anche il più originale ed esclusivo ingrediente della gastronomia internazionale, non solo il più costoso in assoluto. Persino Alain Ducasse – lo chef mito della nostra epoca, colui che ha collezionato più stelle della bandiera americana – alla mia domanda “monsieur, qual è il prodotto che ama più di ogni altro”, rispose, senza alcun dubbio: “il tartufo bianco di Alba, è unico, non c’è nulla che possa competere”.
l tartufo bianco, tesoro delle Langhe
Per capire il suo fascino, e prima di aggirarsi nelle Langhe per incontrarlo, è indispensabile comprendere di cosa si tratta. Il suo nome scientifico è Tuber Magnatum Pico, ed è il corpo fruttifero di un fungo. Contrariamente alla più parte degli alimenti non si cucina, ma si aggiunge, affettato in sottilissime lamelle, ad alcuni piatti base, volutamente semplici, per non alterarne quella sottile alchimia tra profumo e sapore che ne garantisce il risultato memorabile. Perciò il tartufo bianco va ad impreziosire sostanzialmente quattro portate: il tajarin (finissimo tagliolino all’uovo), l’uovo strapazzato al burro, i formaggi freschi della tradizione piemontese, la carne cruda (solo molto leggermente condita) battuta al coltello. E basta, a casa come al ristorante. Chi sbaglia è un parvenu, o meglio uno zotico.
Ed il rito che lo accompagna ha qualcosa di fanciullesco e ancestrale: sniff sniff, gnam gnam. Come fanno i bambini, come fanno gli eroi dei bambini nei fumetti… Il tartufo incanta l’uomo dal 1600 a.C. (ai tempi dei Sumeri e del patriarca Giacobbe), proprio per questa irresistibile – e quasi infantile – accoppiata. Si annusa, piace, si mangia. E poi si ‘mangia il profumo’, perché il tartufo ha proprietà organolettiche e proteiche fondamentalmente pari allo zero.
Il cambiamento climatico minaccia il tartufo
Questo assai volubile signore della cucina si fece definire il “Sancta Santorum della tavola” da Alexandre Dumas, mentre Lord Byron lo teneva sulla scrivania perché “quel profumo” ne stimolava la creatività. Sono leggende e glorie alimentari dure a morire, almeno si spera. Perché la crescita verticale dei prezzi potrebbe non arrestarsi. Così c’è qualcuno che ipotizza l’estinzione del tartufo bianco intorno al 2035. Quando un ristoratore di Alba (chissà quale?) proporrà “l’ultimo piatto col Tuber magnatum Pico”. Il cliente? Un americano, un indiano, al limite un tedesco, il prezzo dipenderà dall’Asta del tartufo, che vivrà la sua edizione definitiva… Da preoccuparsi? Certo si. Da piangere? Ancora no, perché la storia – come nella metafora della farfalla che batte le ali in Cina e crea un terremoto a Boston – prende corsi anche imprevisti, qualche volta salvifichi. Così la battaglia tra chi scomparirà prima – la copia cartacea del New York Time o il Tartufo bianco di Alba – attende ancora un vincitore, che potrebbe non arrivare mai.
Ma quali sono i pericoli? Il riscaldamento climatico (se fa troppo caldo il tartufo proprio “non esce”), la scarsa piovosità (il tartufo ama l’umido), la riduzione della superficie boschiva (il tartufo cresce selvatico proprio lì). Quindi sempre meno tartufi e prezzi sempre più alti.
Quest’anno poi sono cambiate le dimensioni, ovunque più piccole, quindi meno preziose. Pensate che trent’anni fa nei ristoranti di Alba si lavoravano sei chili per settimana, oggi un chilo e mezzo. E poi ci sono fattori meno appariscenti, ma altrettanto determinanti. Il Tuber Magnatum ha bisogno di un ecosistema ideale intorno a se, segnalandoci se un terreno è buono oppure no, dove ci sono dei problemi non cresce. Poi, per riprodursi, ha bisogno della presenza di volpi, lumache, tassi e topi; gli animali che trasportano le sue spore con le feci. Vi siete sei mai chiesto perché il tartufo profuma? Perché deve farsi trovare dal topo…
E poi il tartufo non si coltiva, ma si va a cercare, e non tutti sono in grado di farlo. Anzi, gli unici depositari della tradizione sono i leggendari trifolau (una sorta di società segreta), accompagnati dai loro indispensabili cani, gli annusatori per eccellenza. Soggetti imprescindibili della filiera, da sempre si aggirano in piazza con fare sospettoso, col prodotto ben nascosto e rivelato solo quando il prezzo diventa interessante. Sono rivali durissimi tra di loro, commercianti senza scrupoli, gelosi di tutto: il cane, le piste, i luoghi giusti. Il tartufo bianco si troverebbe ancora a dicembre inoltrato, ma con la prima neve tutti smettono di cercarlo. Perché? Semplice, sulla neve si vedono le tracce ed i rivali potrebbero seguirti, quindi tutti a casa.
La stagione del tartufo nelle Langhe
La stagione del tartufo bianco inizia ad ottobre per concludersi, a seconda degli anni, la prima o la seconda settimana di dicembre. E si celebra, con pochissime eccezioni limitrofe, nelle Langhe, a cavallo tra la provincia di Asti e quella di Cuneo. Territorio tutelato dall’Unesco occupa circa 1300 chilometri quadrati e rappresenta il comprensorio enogastronomico più ricco d’Italia, tra i maggiori d’Europa. Merito non solo del tartufo bianco ma dei vini Barolo e Barbaresco, i primi ad assicurare notorietà mondiale. Fama storicamente piuttosto recente, fino agli Anni Cinquanta questa era una zona sostanzialmente povera e avara di soddisfazioni per l’agricoltura. Raccontata da Cesare Pavese, in Paesi Tuoi, e da Beppe Fenoglio ne La Malora.